evidentemente il consiglio dato nel corso era totalmente fuori luogo: il lavoro con il bambino portatore di handicap richiede sempre il rapporto con i suoi genitori.
I motivi sono tanti:
1) l'azione di aiuto va condivisa con chi ne ha la potestà;
2) la gestione del bambino va condivisa, per fare in modo che, sia a casa che fuori, ci siano le stesse regole e le stesse intese educative.
Anzi: i genitori di questi ragazzi hanno un gran bisogno di essere ascoltati. Dietro di loro c'è tanta solitudine e tanto isolamento. Il problema è infatti il cambio del loro ruolo dopo l'handicap, perdono amicizie, a volte il lavoro, si interrompe pure ogni loro percorso di vita/carriera.
In particolare le madri vanno ascoltate e guidate: il figlio "handicappato", in quanto prolungamento di sè, rappresenta sul piano simbolico la negazione del sogno (durante la gravidanza) sul figlio.
Lo stesso ascolto dev'essere attivo: si tratta di comporre emozioni e scelte verso una "convivenza" con la disabilità e, in caso di forte crisi di questa convivenza, accompagnare queste "genitorialità particolari" verso necessari distacchi.
Insomma, per un assistente sociale il lavoro con il portatore di handicap non può prescindere dal lavoro su QUEL contesto (che è in primis il reticolo ralazionale familiare). E ti dico che è anche molto interessante!
Ugo
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