se l'assistente sociale è utente

Per tutti quei messaggi che non hanno una collocazione precisa
Vale
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se l'assistente sociale è utente

Messaggio da Vale »

Buongiorno a tutti
sono una futura assistente sociale. Ho scelto questo corso di laurea perchè volevo lavorare nel mondo del sociale, anche se, all'inizio ignoravo che desse la possibilità di iscriversi all'albo degli assistenti sociali ( non che la cosa mi dispiaccia :wink: ). Il mondo del sociale ho avuto modo di conoscerlo da sempre, in tutti i suoi pregi e i suoi difetti, inquanto nella mia famiglia c'è una persona gravemente disabile.
Mi sento forte abbastanza per fare questa professione, ed ho sempre pensato che questo mio essere indirettamente "utente" potesse essere un punto di forza. Io stessa ho meno difficoltà a rivolgermi a qualcuno che comprende di cosa stò parlando, e per comprendere fino in fondo si sa che bisognerebbe aver vissuto una circostanza analoga.
Sempre piu frequentemente,però, ricevo messaggi tra le righe, da parte di AS, che mi dicono sostanzialmente che rischio una situazione psicologicamente troppo pesante, e che avrei fatto bene a scegliere un indirizzo diverso. Questo comincia a darmi molto fastidio, soprattutto se l'interlocutore di turno mi conosce a mala pena, ma mi fa riflettere perchè sono in tanti a dirmelo.
Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, se qualcuno ha vissuto qualcosa di simile. grazie a tutti coloro che risponderanno :)
Zuccherina
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Re: se l'assistente sociale è utente

Messaggio da Zuccherina »

Cara Vale aver vissuto direttamente sulla propria pelle esperienze significative non porta altro che a comprenderle meglio avendo però l'accortenza di distaccarsene quando è necessario farlo per la buona riuscita dell'intervento. Quindi ti incoraggio ad intraprendere questo percorso di studio e a portarlo avanti. :D
Ma devi fare attenzione: per fare l'assistente sociale occorre un equilibrio psichico ben saldo altrimenti si rischia di farsi coinvolgere troppo ed invece di aiutare la persona la si danneggia irrimediabilmente!
Per questi motivi personalmente avrei deciso per il futuro di intraprendere un percorso di psicoterapia per elaborare vari conflitti che tutti noi possiamo avere nel corso della vita.....io penso che questa dovrebbe divenire la modalità frequente per gestire ogni possibile fonte di stress....ed in questo senso anche la supervisione diventa ESSENZIALE!
in bocca al lupo! :D
Vale
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Re: se l'assistente sociale è utente

Messaggio da Vale »

grazie per l'incoraggiamento :D :D :D
MonicaB
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Re: se l'assistente sociale è utente

Messaggio da MonicaB »

Io credo, e non faccio della facile ironia, che un po' tutti noi siamo o siamo stati utenti, nel senso che almeno tra tutti i colleghi che conosco e con cui ho avuto modo di confrontarmi su questo, il desiderio di fare questa professione è nato o come desiderio di aiutare gli altri perché si è stati aiutati bene o come desisderio di aiutare gli altri perché si è stati aiutati male o ancora comunque perché si è avuto un episodio o un passato o un attimo di sofferenza. Vuoi una madre difficile, una nonna da accudire, un fratello che abusava di alcol o uno zio con problemi vari. Credo che faccia un po' parte della storia personale di tutti quelli che scelgono una professione di aiuto poi devi giocartela sul campo e farti una bella corazza come ce la facciamo tutti. Almeno credo
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Re: se l'assistente sociale è utente

Messaggio da ugo.albano »

Cara Vale (suppongo Valentina....),

c'è nel servizio sociale italiano ancora una forte cultura dell'asimmetria, cioè un "distacco" (di ruolo e di storia) tra chi aiuta e chi è aiutato. Lo stesso lessico "operatore" e "utente" la dice lunga.

Io la penso al contrario (ci ho pure scritto un libro su questo tema): il vero rapporto di aiuto è simmetrico, è per questo che il servizio sociasle professionale deve lasciare i "contesti burocratici" ed andare verso quelli informali. I gruppi di auto-mutuo aiuto ce lo insegnano: se chi aiuta è passato per il problema, questo è più efficace come promotore del benessere altrui.

Anche io (ho 27 anni di servizio e qualche capello bianco..........) quando ero giovane e lavoravo nella tutela minorile, mi trovavo genitori che mi dicevano "Lei non ha figli, allora non può capire". A distanza di anni dico che avevano ragione. "Avere figli" non è partorire, ma vivere la fatica genitoriale,.....la stessa, poi, che si verifica nella tutela minorile. Io metterei PER LEGGE assistenti sociali con figli alla tutela minorile, e non come ora, piena di colleghe-ragazzine...........Ma, ahimè, l'Italia è uno strano Paese.....

Cosa voglio dire? Di dolore ci si può ammalare (chi ha un disabile in casa lo sa......), ma il dolore stesso può anche dare una chiave di lettura alla vita, anche professionale. Occorre però che questa motivazione sia prima di tutto fotografata, poi monitorata e comunque "ripulita" dei rischi (p.e. quello del "riscatto" sul lavoro per problemi personali). Già nella formazione ci vorrebbe la supervisione individuale ma, ahimè, da quel che osservo in giro, ci troviamo colleghi poco preparati al dolore.
Il rapporto col dolore non lo si impara. Nè viene trattato all'università. Ne consegue che per difesa personale se ne prende distanza: IO da una parte (col sapere, col potere, con i soldi, con i servizi da erogare) e l'utente dall'altra (sfigato, poverino, senza risorse, da assistere.....e chi se ne frega, in fin dei conti...............).

Perciò ti dico: fregatene di quel che ti dicono, queste colleghe hanno sposato l'aiuto asimmetrico perchè a loro più confacente (e più comodo.....). Piuttosto: come futura assistente sociale regalati alcuni incontri di supervisione per focalizzare come hai definito la tua storia rispetto al ruolo professionale che ti aspetterà Gli psicoterapeuti, per esempio, questo lavoro lo fanno ben prima della pratica. Da noi non si fa, ed è un peccato, perchè poi tanti colleghi soffrono come cani in questo lavoro, semplicemente perchè non lo sentono "loro".

Spero di averti risposto.

E, per cortesia, non usiamo più la parola "utente", che è ormai etichettante. Chiamiamoli "persone", "richiedenti aiuto", "cittadini", ecc. Sono persone come noi. Anzi: io in vita mia ho trovato da loro TANTA umanità, ho imparato da loro tantissimo.

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Re: se l'assistente sociale è utente

Messaggio da Vale »

MonicaB ha scritto: un po' tutti noi siamo o siamo stati utenti
:) già, anche io ho sempre pensato che tutti gli esseri umani vivono, o hanno vissuto, circostanze dolorose...almeno fino a quando non hanno cominciato a guardarmi come un UFO. Forse le AS che ho conosciuto ne sono immuni!!! :? ...beate loro!
grazie per la risposta Monica :)
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Re: se l'assistente sociale è utente

Messaggio da Vale »

Ugo, non immagini quanto sia incoraggiante per me, che una persona con tanta esperienza, mi dica questo.

Non ho ben capito però cosa si intende per "incontri di supervisione individuale" :roll:

NB il termine "utente", credo, sia l'unico che definisca colui che usufruisce del servizio(sociale). non intendevo dare a questo termine una connotazione negativa ( anche perchè ad essere definite tali potrebbero essere persone a me care :) )

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Re: se l'assistente sociale è utente

Messaggio da Zuccherina »

Ugo condivido quello che scrivi ma su un punto non sono d'accordo!!Parlo della tutela minorile esercitabile per te solo da parte di chi ha figli....non è giusto questo.....allora seguendo il tuo ragionamento può lavorare in un sert solo chi ha avuto problemi di tossicodipendenza......non credo!!!Sono la prima a dire che aver avuto dei problemi a volte aiuta nel capirli ma tra questo e dire che solo chi ha figli dovrebbe occuparsi di tutela minorile ci passa l'oceano!!!!Se ho sbagliato ad interpretare i tuoi pensieri.....correggimi.... :?
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Re: se l'assistente sociale è utente

Messaggio da ugo.albano »

Per Vale: per supervisione si intende un percorso di monitoraggio della motivazione a lavoro. L'obiettivo è quello della consapevolezza su di sè e sul contesto in cui si opera.

Per Zuccherina: logicamente era una metafora. Mi spiego meglio: si tratta di avere "competenze". Queste derivano in parte dalla propria esperienza (essere genitori), in parte dalle esperienze lavorative, in parte dalla formazione, ecc.

E' logico che devo farmi le pere per lavorare al sert e non devo essere schizofrenico per lavorare in psichiatria, ci mancherebbe. EPPURE è importante capire COME io conosco il problema, se leggendo i libri o se in qualche modo si è vissuto il problema stesso. Aver avuto (anche indirettamente......) un problema può significare "una marcia in più" nell'essere efficace nel rapporto di aiuto, può pure essere un ostacolo. Dipende. ........ infatti chi è passato per una "fase critica della vita" ed ha ben elaborato il dolore, HA UNA MARCIA IN PIU', almeno sul lato dell'ascolto empatico. Chi invece non l'ha elaborato, fa casini, perchè PROIETTA SE STESSO SULL'ALTRO. Per evitare ciò la supervisione aiuta. .....ma anche un buon libro e, (credo)...pure questo forum.

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Messaggio da Nazg »

Le esperienza ci formano, ci cambiano, ci fanno crescere.
Parlando con molti colleghi ho sentito spesso dire che il loro percorso di vita li ha portati verso la professione di A.S., o perchè hanno vissuto in famiglia delle esperienze significative o perchè hanno incontrato qualcuno che con il suo vissuto li ha fatti riflettere, al punto da motivare un ingresso nel mondo delle professioni di aiuto.

Io personalmente ho conosciuto i servizi fin da piccina per una situazione di handicap in famiglia e credo che questo mi abbia dato la possibilità di costruire dentro di me una sensibilità all'ascolto e una disponibilità verso l'altro.
Ci sono voluti anni per trovare una dimensione personale di accettazione lucida e critica del problema permanente, e poi un equilibrio professionale, ma nel tempo ho imparato molte cose.
Credo che sia possibile "utilizzare" il proprio bagaglio personale in termini di risorsa positiva, dandosi sempre il tempo per riflettere sul vissuto professionale in modo tale da controllare le sempre possibili ricadute della propria emotività nel contesto lavorativo.

Sarò presuntuosa, ma secondo me è meglio avere di fronte un A.S. che ha vissuto delle esperienze di sofferenza, piuttosto che un A.S. che vive in un mondo illusorio (non conoscere il dolore vuol dire non conoscere in mondo) e che magari poi pretende di capire gli altri e decidere per loro in base a quello che è il suo limitato punto di vista.
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Re: se l'assistente sociale è utente

Messaggio da sekywa »

scusate e chi invece ha scelto di fare questo lavoro proprio perchè in vita sua non ha mai avuto problemi particolarmente gravi, riconosce questa fortuna e vuole mettere a disposizione le sue competenze per aiutare l'utente?
anche questo potrebbe essere un punto di forza credo, non necessariamente non aver avuto dolori personali o familiari impedisce o toglie qualcosa al lavoro dell'as.
credo costituisca anche una naturale abitudine a volgere lo sguardo al cambiamento, al miglioramento, al positivo; il che non significa necessariamente al sogno, all'impraticabile.
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Re: se l'assistente sociale è utente

Messaggio da Vale »

ciao Nazg, prima che tu diventassi assistente sociale, qualcuno che già conosceva il settore (e la tua vita privata) ti ha mai sconsigliato di fare questa professione?
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Re: se l'assistente sociale è utente

Messaggio da Nazg »

Vale ha scritto:ciao Nazg, prima che tu diventassi assistente sociale, qualcuno che già conosceva il settore (e la tua vita privata) ti ha mai sconsigliato di fare questa professione?
Sinceramente non per i motivi di cui sopra (al massimo sconsigliavano la professione perchè lamentavano la loro personale fatica dovuta al tipo di lavoro). :)
Il mio percorso di crescita personale non è evoluto solo per le mie vicende familiari, ma anche per diverse esprerienze di volontariato. Chi mi ha incontrato all'epoca posso immaginare che abbia visto un orizzonte di partenza sufficientemente ampio che si univa alle mie predisposizioni e capacità di ascolto, accoglienza, attenzione all'altro.
Siamo come un mosaico fatto da tanti tasselli e molti di questi portano nella stessa direzione, basta riuscire a rendere le nostre competenze fluide.
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Re: se l'assistente sociale è utente

Messaggio da giusy-miele »

Salve, a riguardo la mia professoressa di psicodinamica dello sviluppo e delle relazioni familiari,durante una lezione spiegò che ci sono persone che scelgono di svolgere una professione di aiuto per riparare se stessi bambini e non solo per altri motivi che possono essere attitudine e altruismo.Io credo di rientrare in questa categoria poichè ho un caso di depressione in famiglia...Anche se credo che questo non sia l'unico motivo per cui ho scelto di fare l'assistente sociale.La professoressa aggiunse poi che chi sceglie questo tipo di lavoro, per riparare se stesso,non lo svolgerà bene.Che ne pensate?
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Re: se l'assistente sociale è utente

Messaggio da ugo.albano »

Beh, a stare a sentire gli psicologi c'è tutto ed il contrario di tutto: chi fa l'ingegnere è per recuperare la sua frustrazione da bambino con i lego, il chirurgo per scaricarsi dal sadismo subito, il cuoco per recuperare la carenza di affetto (nutrimento affettivo), ecc. La psicologia si basa sul determinismo, non può che essere così.

Siccome siamo tra assistenti sociali dovremmo ragionare come tali e quindi comprendere che, oltre al determinismo, ci sono altri fattori da considerare.

Ma in fondo, scusate, "ma che ce ne frega"?? Io credo che non dobbiamo oscillare tra il "non essere stati persone problematiche" o il contrario, ovvero essere belli e felici. Il dolore vissuto può essere una risorsa, ma anche un ostacolo. Dipende............

Dipende da che? Dall'elaborazione che se n'è fatta. Si può aver sofferto nella vita, però è necessario aver digerito il dolore ed averlo sistemato nella propria vita. E' solo così che nell'aiuto ci si orienta verso l'altro senza rispondere a bisogni (reali) di se stessi. E se anche fosse? Va pure bene, l'importante è esserne consapevoli senza tirare gli altri nel loro gioco. D'altra parte, se pensate ai "grossi nomi" del sociale italiano "dai don.....ai Muccioli di turno", ma non vedete che narcisisti? E che interessi economici????

Io sono solito fare esempi. Per esempio l'amore. Quando ci si lascia, se non si elabora il fatto (dove ho sbagliato io? Dove l'altro?) si ripetono gli stesso errore col partner successivo. Allo stesso modo sul lavoro: se non ho sistematizzato un problema mio (o familiare, o quel che è) è normale che proietto me stesso sul lavoro, in modo che la risposta all'altro sia, in effetti, verso di me.

COME USCIRNE? Facendone supervisione. Oppure semplicemente abituandosi al confronto con gli altri. Se io fossi docente, per esempio (ma non lo sono) vi farei fare lavori di gruppo sulla motivazione all'aiuto: occorre comunicare agli altri il proprio progetto di vita e, facendolo, accettare restituzioni dagli altri. Non è l'esperto colui che guida, ma ognuno di noi: l'importante è creare il contesto che induca autoriflessione. Un'altra strada potrebbe essere il confronto col supervisore di tirocinio: è lì che, oltre il "fare" il collega, che vi osserva, connette i vostri punti di forza o di debolezza alla vostra storia di vita.

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